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La Romagna, la sua cucina e i suoi prodotti

la cucina romagnola

 

E voi conoscete la geografia che definisce il territorio “Romagna“? Il confine con l’Emilia viene concordemente segnato sul corso del fiume Sillaro, comprende una fascia costiera, una zona appenninica e la pianura. Le ragioni che legano la Romagna all’Emilia fondendole in una sola regione sono strettamente politiche ed amministrative. Per aspetti quali carattere, storia, tradizioni, la Romagna è un’entità a se stante.

La Romagna è un vero giardino coltivato fin dai tempi antichissimi. Il paesaggio agrario, geometrico e razionale ci riporta all’epoca degli Etruschi nel X secolo A.C. che insegnarono ai romagnoli a bonificare e lavorare la terra, a coltivare la vite, i frutti, i fiori e a sviluppare l’arte orientale della ceramica. Durante l’Impero Romano – era provincia romana – l’agricoltura già florida prosperò ulteriormente grazie alla costruzione di canali di irrigazione alternando alle viti cereali, ortaggi e foraggi.

La cucina tradizionale romagnola è sopratutto cucina contadina e il suo temperamento sanguigno e deciso si ritrova anche a tavola. La tradizione della cucina è rimasta viva nel tempo e rappresenta per i romagnoli motivo di orgoglio e senso di appartenenza.

L’Azdora il cuore della casa

La famiglia contadina romagnola era un tempo di tipo patriarcale. Il capofamiglia guidava e manteneva la famiglia; a seguire per importanza c’era l’Azdora il vero perno della casa. Non sempre moglie del capofamiglia, era una donna dal carattere forte, che si sposava giovane e nella casa del marito compiva un tirocinio di fatica ed obbedienza sotto l’autorità della suoceran – Azdora prima di lei. Dopo aver dimostrato le proprie capacità e la validità dell’agire, e con il passare degli anni avrebbe preso il suo posto nella gestione domestica.

Le minestre fatte in casa erano il piatto forte del pranzo di mezzogiorno, spesso “matte” cioè di sfoglia senza uova, insaporite più dalle verdure che dal condimento. Seguivano, a volte, formaggio e pancetta abbrustolita, schiacciati tra due fette di pane per non perdere neanche una goccia di grasso. Più ricchi e saporiti erano i piatti dei giorni di festa: a pranzo e a cena non mancavano mai minestre con brodo di gallina o pastasciutte ben condite, arrosti, stufati e magari una fetta di ciambella da inzuppare in un bicchiere di vino. Sono nati così nella gestione della quotidianità e dei giorni di festa un’infinita serie di piatti che, nel tempo, hanno reso la tavola contadina romagnola una delle più ricche e saporite fra quelle regionali.

Curiosità su alcuni prodotti romagnoli

Se la crusca serviva soprattutto per alimentare gli animali mentre la farina bianca, era destinata alla pasta e al pane. Spesso veniva mescolata al cruschello, per ottenerne un pane più scuro, ricco e saporito da consumare per primo, perché induriva più facilmente. La farina di polenta poteva essere imperlata e dolcificata da chicchi d’ uva passita.

Il pane e la piadina

La panificazione avveniva in genere una volta alla settimana – mai di venerdì perché portava male – e tutta la famiglia veniva coinvolta. Il pane era oggetto di rispetto e pertanto trattato secondo regole precise: non andava tenuto a pancia in su sulla tavola, non doveva essere profanato col coltello ma spezzato con le mani e portato alla bocca con la destra, la mano dell’Angelo. Anche secco e raffermo era consumato in tante maniere diverse: si ammorbidiva con acqua e poi condiva con olio e sale, si cospargeva di grasso e si abbrustoliva alla fiamma.

Al contrario del pane, la piadina non ha bisogno del forno, che non tutti potevano non avere in campagna, le bastava il calore del focolare e quindi poteva essere cibo quotidiano. Nella sua versione più umile era fatta di sola farina e acqua salata intiepidita; l’aggiunta di bicarbonato per alleggerire l’impasto senza giungere alla completa lievitazione risale ai primi del ‘900.

Il pesce

Il consumo di pesce era molto limitato nelle fasce dell’entroterra e legato alle visite ai mercati e circoscritto a specie di poco prezzo: sarde, saraghine, frittura, paganelli. Più successo incontravano baccalà, aringhe, venduti sotto sale in tutti gli spacci del paese. Si sposavano bene con la polenta soprattutto le aringhe, con cui da crude si profumava anche il pane. Le anguille erano un dono in più per chi abitava vicino al fiume. Servivano per i piatti di vigilia ed entravano in molte preparazioni.

Il maiale

Ingrassato senza spese con le brodaglie di scarto, il maiale portava, con la sua morte, la ricchezza della dispensa. L’uccisione avveniva in pieno inverno, prima dei “giorni della merla” (alla fine di gennaio), in un giorno di luna buona. Subito dopo le donne raccoglievano il sangue fiottante ancora caldo dal suino appena sgozzato. Quello che non sarebbe stato usato per fare il “migliaccio” – un dolce ricco per i giorni di festa – era subito fritto in padella con abbondante cipolla e pancetta a lardelli.

Fegato e stomaco erano i primi ad essere consumati e le interiora dovevano essere ripulite alla svelta per la preparazione degli insaccati. Il grasso veniva separato dalla carne poi tagliato in cubetti e messo a sciogliere nel paiolo più grande della casa, mescolando pazientemente con un lungo bastone di legno per facilitare la fusione. Veniva poi filtrato e versato nella vescica accuratamente pulita e gonfiata; dalla spremitura dei residui dello strutto, schiacciati tra le piastre di una morsa, uscivano caldi e croccanti i ciccioli, da condire con il sale e profumare con l’alloro e la scorza di un limone.


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