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Romagna: Un viaggio gastronomico attraverso storia e tradizioni

La Romagna, regione italiana dal confine fluviale del Sillaro alla costa adriatica, abbraccia una variegata geografia che comprende pianura, colline e Appennini. Sebbene amministrativamente unita all’Emilia-Romagna, la Romagna possiede una forte identità culturale, storica e, naturalmente, culinaria, che la distingue nettamente. Questa terra, coltivata fin dall’epoca etrusca (X secolo a.C.), mostra un paesaggio agricolo ordinato e razionale, eredità di antiche tecniche di bonifica e coltivazione della vite, frutta, fiori e ceramiche. Durante l’Impero Romano, la già fiorente agricoltura romagnola prosperò ulteriormente grazie a sofisticati sistemi di irrigazione, diversificando le coltivazioni tra cereali, ortaggi, foraggi e vitigni. La cucina tradizionale romagnola, essenzialmente contadina, riflette il carattere forte e deciso degli abitanti. Un retaggio tramandato con orgoglio di generazione in generazione. In passato, la famiglia contadina era strutturata in modo patriarcale, con il capofamiglia a guidare e mantenere la famiglia, affiancato dall’Azdora, figura chiave e spesso non moglie del capofamiglia, donna di forte temperamento che, dopo un periodo di apprendistato sotto la suocera (anch’essa Azdora), gestiva la casa e la cucina. Il pranzo contadino si basava su minestre casalinghe, spesso “matte” (a base di sfoglia senza uova), arricchite da verdure più che da condimenti elaborati. Formaggi e pancetta abbrustolita, consumati tra due fette di pane, completavano il pasto. I giorni di festa vedevano invece banchetti più ricchi: minestre con brodo di gallina, pasta ben condita, arrosti e stufati, accompagnati da una fetta di ciambella e vino. Da questa quotidianità e da queste ricorrenze nacque una ricca tradizione culinaria. La farina, a seconda della qualità, era destinata a differenti usi: la bianca per pasta e pane, mentre la crusca nutriva gli animali. Spesso, per ottenere un pane più scuro e saporito, si mescolava farina bianca e cruschello. Anche la polenta poteva essere resa più gustosa con l’aggiunta di uva passa. La panificazione, attività settimanale (mai il venerdì, considerato di cattivo auspicio), coinvolgeva tutta la famiglia. Il pane, trattato con rispetto, non si teneva mai capovolto, veniva spezzato a mano e portato alla bocca con la mano destra. Anche raffermo, trovava svariati utilizzi: ammorbidito con acqua e condito, o abbrustolito dopo essere stato unto di grasso. Diversamente dal pane, la piadina, cotta sul focolare, costituiva un alimento quotidiano, semplice nella sua versione più povera (acqua e farina salata). L’aggiunta di bicarbonato per un impasto più leggero è successiva, risalente agli inizi del ‘900. Il consumo di pesce era limitato nell’entroterra, con prevalenza di specie economiche come sarde, e un maggiore impiego di baccalà e aringhe, vendute sotto sale. Le anguille, reperibili per chi abitava vicino al fiume, erano un prezioso ingrediente per i piatti di vigilia. Il maiale, fonte di sostentamento invernale, veniva macellato prima dei “giorni della merla”, con la luna favorevole. Il sangue, raccolto caldo, serviva per preparare il “migliaccio”, dolce tipico delle feste, mentre le interiora venivano ripulite per la preparazione di insaccati. Il grasso, fuso e filtrato, veniva conservato, mentre dai residui, pressati, si ottenevano i croccanti ciccioli, aromatizzati con alloro e limone.

Redazione

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