Le celebrazioni pasquali romagnole, un tempo, seguivano rituali precisi, con una tavola imbandita secondo usanze consolidate. Dopo la Quaresima, periodo di magro dove si consumavano pane rustico (con latte e formaggio per i più agiati), polenta, zuppe e minestre di verdure, uova e “cuciarul” (castagne secche cotte in vino e zucchero), il Giovedì Santo iniziava un digiuno di tre giorni, sintetizzato dal proverbio: “Chi non digiuna il venerdì santo, corpo al lupo, anima al cane!”. Il giorno di Pasqua, si iniziava con una colazione sostanziosa: la “pagnòta ‘d pasqua”, una pagnotta o ciambella, preparata in casa, spesso con una croce incisa sulla superficie. La lievitazione era cruciale: l’impasto, a forma di cupola, veniva riposto sotto le coperte, vicino ad uno “scaldaletto”, un attrezzo di legno curvo per riscaldare l’impasto senza bruciare le lenzuola. Ogni famiglia custodiva gelosamente la propria ricetta, tramandata di generazione in generazione, con ingredienti che variavano in base alle disponibilità economiche, dando vita a diverse varianti locali, particolarmente apprezzate a Sarsina e Mercato Saraceno. La ricetta base, tuttavia, prevede farina, zucchero, strutto, uova, scorza di limone grattugiata, vaniglia, lievito e uva passa. Nelle zone di confine con le Marche, la “pagnòta” cede il posto alla “crescia”, focaccia salata al formaggio. A colazione, oltre alla pagnotta, si gustavano uova benedette, vino bianco dolce e il primo salame dell’anno, in quanto la macellazione del maiale avveniva solitamente a gennaio. A pranzo, immancabili i passatelli in brodo, ma anche la “zuppa imperiale”, variante gustosa con gli stessi ingredienti dei passatelli (uova, formaggio, pane, noce moscata) arricchiti di semolino, cotta al forno e servita a tocchetti nel brodo. Tra i primi piatti pasquali, spicca la pasta al forno, con lasagne bianche o verdi (spinaci) o di zucca, cannelloni (ripieni di carne, ricotta e spinaci, o in versioni vegetariane), crespelle farcite e i “nidi di rondine”, così chiamati per la loro forma. Un piatto semplice ma sempre apprezzato è costituito da prosciutto cotto, besciamella, pomodoro, parmigiano, burro per la doratura e, a volte, funghi freschi. I secondi tradizionali erano agnello e castrato, carni molto diffuse sulle tavole romagnole fino all’Ottocento, cucinate alla griglia, al forno, in spezzatino o con ragù. Pellegrino Artusi, nella sua “Scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, celebra l’agnello con piselli, pur avvertendo che la sua qualità ottimale è in dicembre, mentre a Pasqua inizia la sua decadenza. Oltre ai tagli pregiati, si apprezzano anche le interiora e la testa, quest’ultima, secondo Artusi, adatta alla famiglia ma non agli ospiti. Tra i dolci, il latte imperiale, un tempo preparato con dodici uova (quattro intere e otto tuorli) per mezzo litro di latte, zucchero e vaniglia. Il tutto accompagnato da Sangiovese e Albana. Numerose proposte per Pasqua e Pasquetta sono offerte dai ristoranti romagnoli, con menù di carne, pesce e vegetariani, disponibili sia per l’asporto che per il delivery in varie località della Romagna e della Riviera.
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