La città italiana con la pizza più cara… è in Emilia Romagna: la margherita costa addirittura 18€ | Hanno distrutto un patrimonio italiano
Pizza margherita (Pexels) - Romagnaatavola
Dalla margherita da oltre 17 dollari negli Stati Uniti ai 17,58 euro di una pizza con bevanda in Emilia Romagna: la pizza resta protagonista, ma sempre più spesso è un piccolo lusso da programmare.
Negli ultimi anni la pizza, simbolo universale di convivialità, semplicità e cena “facile”, sta attraversando una trasformazione profonda sia negli Stati Uniti sia in Italia. Se un tempo rappresentava la soluzione immediata, informale e alla portata di quasi tutte le tasche, oggi risente in modo evidente dell’aumento dei prezzi, dell’inflazione che pesa sui bilanci familiari e del diffondersi di abitudini alimentari più salutistiche. Il risultato è un paradosso: la pizza non scompare, ma cambia ruolo, forma e frequenza con cui viene ordinata.
Negli Stati Uniti, in particolare, il mercato mostra segnali di rallentamento. Il prezzo medio di una semplice margherita “standard” si avvicina ormai ai 17 dollari, soglia che fotografa l’incremento generalizzato dei costi lungo tutta la filiera: dalle materie prime all’energia, fino alla manodopera. Allo stesso tempo, si consolidano tendenze alimentari più sobrie, con una parte crescente dei consumatori attenta a porzioni, apporto calorico e qualità dei condimenti. Ne deriva una pizza sempre più “misurata”: più piccola, con meno ingredienti e meno concessioni all’eccesso.
Stati Uniti, tra pizze ridotte, meno condimenti e nuove abitudini di consumo
Secondo un’analisi del 2025, molte grandi catene statunitensi segnalano un calo sensibile delle prenotazioni. Di fronte a listini in crescita, circa il 35 per cento dei clienti dichiara di ordinare pizza meno spesso, mentre un altro 35 per cento afferma di cercare con insistenza sconti e promozioni per contenere la spesa. Non è tutto: circa il 25 per cento dei consumatori preferisce ripiegare su alternative preconfezionate o surgelate, ritenute più economiche o facilmente dosabili in base al budget familiare.
La reazione non si traduce in un abbandono totale della pizza, ma in una diversa modalità di acquisto. Si scelgono formati small, si rinuncia agli ingredienti “extra” e si riduce la generosità delle farciture. Lo scontrino medio resta sotto controllo, ma il prodotto finale si allontana dall’immagine abbondante e conviviale che ha reso la pizza così popolare nel mondo. A questa dinamica si sommano fattori di contesto: la pressione dell’inflazione, l’effetto di dazi introdotti negli anni passati su alcune materie prime e un’attenzione crescente alla salute, che porta a moderare i consumi più indulgenti.
Il fenomeno non riguarda soltanto le grandi catene. Anche le pizzerie indipendenti registrano un calo degli ordini e una trasformazione delle richieste. La pressione sui costi si somma alla necessità di mantenere un certo standard qualitativo, spesso più elevato, senza allontanare la clientela abituale. Un segnale concreto arriva anche dai cosiddetti “servizi collaterali”: si riduce la domanda di cartoni per pizza d’asporto, indizio del fatto che non è solo la dimensione delle singole pizze a diminuire, ma anche il numero complessivo di consumazioni.
A spingere verso il cambiamento non c’è solo il portafoglio. In molti scelgono di non esagerare con condimenti e quantità per motivi di salute e benessere. C’è chi opta per guarnizioni più semplici, chi limita le uscite serali considerate “importanti” e caloriche, chi sostituisce parte delle occasioni in pizzeria con alternative domestiche più leggere. La pizza resta un momento di piacere, ma sempre più spesso viene trattata come una piccola concessione da gestire con attenzione.

Italia, prezzi in crescita e il rischio di perdere la pizza “democratica”
In Italia la situazione non è identica a quella statunitense, ma alcune dinamiche iniziano a somigliarsi. Gli studi più recenti indicano che il costo medio di una consumazione “pizza + bevanda” ha superato la soglia dei 12 euro, con un aumento di quasi il 20 per cento rispetto a sei anni fa. La pizzeria resta un punto di riferimento per cene tra amici e famiglie, ma la crescita dei prezzi rende sempre meno scontato considerarla un’opzione economica e immediata come in passato.
In alcune aree del Paese l’incremento è ancora più evidente. A Reggio Emilia, per esempio, la spesa media per una pizza con bibita si aggira intorno ai 17,58 euro, una cifra che sposta la percezione della pizza verso una fascia di consumo più impegnativa. Se si aggiungono eventuali antipasti, dessert o seconde bevande, la serata può rapidamente avvicinarsi ai costi di altri format della ristorazione, riducendo il vantaggio competitivo che la pizza ha sempre avuto sul piano del prezzo.
Il contesto è segnato dagli stessi fattori che colpiscono altri comparti: materie prime più care, bollette energetiche elevate, costo del lavoro in aumento. Le pizzerie si trovano così a dover scegliere tra l’assorbire parte dei rincari riducendo i margini oppure ritoccare i listini con il rischio di perdere una fetta di clientela più sensibile alle spese. Se la tendenza all’aumento dovesse proseguire, non è escluso che anche in Italia si rafforzino comportamenti simili a quelli osservati negli Stati Uniti, con porzioni più piccole, consumi meno frequenti e maggiore cautela nelle scelte.
La domanda di fondo è se la pizza riuscirà a mantenere il proprio ruolo di “comfort food democratico”, accessibile e aggregante, oppure se diventerà sempre più un rito selettivo, da concedersi a intervalli più lunghi e in forme meno generose. Per ora resta uno dei piatti più amati e riconoscibili al mondo, ma il “caro-pizza” rischia di erodere, lentamente, quella spontanea leggerezza con cui per decenni è stata ordinata, condivisa e celebrata nelle sere italiane e non solo.
