La credenza è forse il luogo della casa che più ci ricorda l’infanzia, la famiglia, la nonna. Un mobile (creato nel ‘600 proprio in Romagna) che emana sensazioni di calore e profumi dolci e avvolgenti. In passato era il mobile della cucina che custodiva le stoviglie “buone” e serviva come appoggio per le pietanze degli sfarzosi banchetti nobiliari. Con il tempo questo mobile è diventato più alto, quasi uno stretto armadio, con gli sportelli di vetro, da dove si potevano intravedere tutte quelle preparazioni che non avevano bisogno di stare al fresco. In particolare i dolci della nonna, quelli semplici, fatti con ingredienti genuini, con cui fare merenda o colazione. Niente lavorazioni elaborate da cake design, nessun multistrato di crema o panna, solo poche materie prime spesso provenienti dal proprio orto e dal pollaio o da quello del vicino. Tutte ricette di cui la Romagna è ricca e con una tradizione ancora decisamente viva.
Scopriamo allora quali sono i dolci da credenza romagnoli.
È la regina delle preparazioni dolci della Romagna. La torta ideale con cui iniziare la giornata ma con cui finire pure un pranzo di festa, insieme a un bicchierino di Albana dolce. A differenza di altri dolci simili, non ha la forma tonda con un foro centrale, ma allungata, ovale, quasi fosse un pezzo di pane. La superficie biscottata è cosparsa di zuccherini, a volte di zucchero a velo, mentre l’interno resta morbido. Ogni famiglia e ogni fornaio ha la sua ricetta di ciambella, spesso tramandata di generazione in generazione. Gli ingredienti, però, restano quelli semplici di una volta: farina, uova, zucchero, burro, latte e lievito. Nelle moderne versioni possiamo trovare nell’impasto l’uvetta, le gocce di cioccolato oppure le mandorle. Se volete assaggiare un’interpretazione alquanto profumata, provate la nostra ciambella alla salvia.
Un dolce semplice, originario della bassa Romagna. La seconda domenica di maggio a Borghi, in provincia di Forlì-Cesena c’è una sagra dedicata proprio a questa torta da credenza, in dialetto Bustrengh. Probabilmente il bustrengo è nato tra le case dei contadini che versavano nell’impasto ciò che avevano a disposizione per evitare sprechi. Ecco perché ne esistono tante varianti, compresa quella con la farina di castagne e, ancora oggi, è considerata una ricetta perfetta per svuotare la dispensa. Pensate, nelle preparazioni antiche si usavano dai 20 ai 32 ingredienti. Tra questi, non potevano mancare pane raffermo, zucchero, uova e latte. Altre materie prime molto usate sono la farina gialla e bianca e la frutta secca, soprattutto fichi.
Una ricetta diffusa in tutti i territori italiani dove è presente questa materia prima, in primis l’Emilia-Romagna. Da Castel del Rio (Bo) alla Valconca, sono tanti i luoghi dove si possono raccogliere questi frutti autunnali e dove è di casa la preparazione che meglio li valorizza. Il castagnaccio è un dolce invernale, particolarmente diffuso sull’Appennino, morbido e naturalmente zuccherino. Tra gli ingredienti non troviamo, infatti lo zucchero, ma solo la farina di castagne e l’uvetta, che garantiscono questa piacevole sensazione al palato. Non c’è neanche il burro, ma l’olio extravergine d’oliva, segno di una preparazione povera ma che può tentarci tanto ancora oggi, visto che sono sempre più diffuse le intolleranze, come quella al lattosio.
I dolci da credenza seguono le stagioni e le festività più importanti e sentite. Nel periodo di Pasqua, in Romagna non poteva mancare la pagnotta o panina, una sorta di pane dolce che si gustava in famiglia per la colazione della domenica di Pasqua, insieme a una fetta di salame e alle uova sode benedette. La sua forma è tonda e ampia, l’impasto morbido, costellato di uvetta. Questo dolce si conserva per diversi giorni anche se, come il pane, si secca un po’. Basta però tostarlo per pochi minuti sul testo caldo per ravvivare i suoi sapori e i suoi profumi. A Sarsina (Fc) due settimane prima di Pasqua si tiene la Sagra della Pagnotta.
La ricorrenza dei defunti, il 2 novembre, è molto sentita in Romagna, tanto da avere un dolce dedicato. Si tratta di un pane, tondo e schiacciato, arricchito da frutta secca e uvetta, la piada dei morti. Sembra che le origini di questa tradizione risalgano alla dominazione della Romagna da parte di alcune tribù celtiche. Secondo questi popoli, in questo periodo dell’anno, i morti tornavano sulla terra e venivano accolti (e ingraziati) con questo pano ricco. Negli usi e costumi contadini, questa tradizione rimase ben radicata nei secoli tant’è che ancora oggi i forni romagnoli da metà ottobre sfornano morbidi pani dalla superficie dorata, tempestata di mandorle, noci e pinoli, tutti frutti tipici della stagione e del territorio.
A Cattolica (Rn) la credenza a Natale ospitava, invece, un dolce molto particolare, unico in Romagna. Stiamo parlando del miacetto. Secondo lo storico Maria Lucia De Nicolò, il nome deriva dalla definizione di questa ricetta ovvero la torta formata da mille acini. Tradizionalmente, veniva preparato alla Vigilia e quindi non contiene nessun ingrediente che potesse disturbare il “regime di magro”, dallo strutto alle uova. Il cruschello (rùmgiulén) o la farina integrale viene così impastata semplicemente con acqua, olio e miele, scorza di agrumi, uva passa e frutta secca (noci, pinoli e mandorle). Rispetto a ricette natalizie simili, come il pan pepato di Modena o il panforte toscano, non ci sono spezie seppur alcune famiglie apprezzino l’aggiunta di un pizzico di cannella anche nel miacetto.
Sono simili ai cantucci toscani. Sono biscotti secchi con le mandorle, come si intuisce dal nome, molto croccanti. Hanno la forma allungata e la dimensione perfetta per essere portati in tasca. Così, infatti, facevano i contadini di una volta, quando portavano gli scroccadenti nei campi e a pranzo li mangiavano insieme a un bicchiere di vino. Oggi li ritroviamo nei forni o nei ristoranti tradizionali, come dessert, pronti per essere inzuppati (tocciàti in dialetto) nei vini liquorosi, come un Albana passito.
Ben altra consistenza è quella che caratterizza questi altri biscotti romagnoli. Si tratta, infatti, di mezzelune di pasta frolla farcite con morbida confettura o con il savor, una conserva della tradizione contadina della Romagna a base di mosto d’uva e frutta. Le raviole romagnole possono essere bagnate nell’alkermes e ricoperte di zucchero, proprio come le pesche dolci ripiene, dette i Pisgheini. Nelle varianti moderne questi biscotti possono essere farciti con il cioccolato o la Nutella a seconda dei gusti.
Un’altra delle più classiche ricette romagnole, nonostante il nome fuorviante e l’origine controversa. Subito riconoscibile è invece il suo colore rosato grazie alla presenza del liquore Alchermes. Oggi la conosciamo come un dolce al cucchiaio, ma in passato era un prodotto da forno, una torta rotonda con una base di pasta frolla, come ancora si può assaggiare in alcune pasticcerie tradizionali come la Pasticceria Succi di Santarcangelo. In questo modo il dolce si può preservare a temperatura ambiente, evitando magari i periodi più afosi.
Questa ricetta, invece, non è sicuramente romagnola. Il Friuli Venezia Giulia e il Veneto ne rivendicano con forza la paternità, ma dobbiamo dire che il nostro territorio, da sempre sinonimo di accoglienza, ha “adottato” questo dolce come fosse suo. Forse anche merito della presenza in regione di una preparazione simile, segnalata a fine ‘800 libro-artusi, chiamata Dolce Torino. Al posto del mascarpone si usava il burro e il caffè veniva sostituito con il liquore rosolio. In ogni caso, come per la zuppa inglese, in passato si preparava una variante più rustica del tiramisù, una torta a base di pasta frolla, cotta al forno, che si poteva conservare in credenza per qualche giorno. Ammesso che non venisse divorata subito, ovviamente.
Carlotta Mariani
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